lunedì 4 giugno 2012

I denti dei lupi (Anedonia, cap. X)

Se non fosse che quel dio distratto s’era svegliato proprio allora e, anziché darti il sollievo dell’eterno oblio, era intervenuto all’ultimo, decisivo istante, lasciandoti con le ossa rotte.


E poi arrivava, dritto sotto le costole inferiori, in pieno centro. Arrivava e non avevi la minima possibilità di difesa, chè era come se tutto quello che avevi imparato fino a quel momento fosse congelato in un angolo remoto della tua mente che crashava improvvisamente negandotene l’accesso. Quel pugno che ti piegava in due, che ti faceva arrivare in bocca il sapore metallico del sangue anche se le tue gengive non erano state colpite. Era come se mille animali affamati ti scarnificassero brutalmente, ognuno in una parte diversa del tuo corpo. E l’unica consolazione era sapere che non sarebbe durato a lungo, che la Nera Signora che tutti impauriva non poteva essere molto lontana e che stava per venire a portarti via da tutto ciò. Se non fosse che quel dio distratto s’era svegliato proprio allora e, anziché darti il sollievo dell’eterno oblio, era intervenuto all’ultimo, decisivo istante, lasciandoti con le ossa rotte ai bordi della strada, senza morfina che potesse sedare quel dolore simile a un milione di coltelli che ti trapassavano le viscere. E stavi steso a terra, sentendo la ragione vaporizzarsi come un bicchier d’acqua gettato nel cratere di un vulcano. Stavi impazzendo e forse era meglio, sì, decisamente meglio la follia di quel dolore, qualsiasi cosa al mondo sarebbe stata meglio di quello. Anche andarsene in giro per il resto dei propri giorni con lo sguardo ebete di chi non ha idea di dove si trovi né tantomeno di chi è. Anzi, imploravi il cielo di poter essere uno di loro, uno di quei fantasmi che vagano senza meta fissando curiosi i passanti negli occhi mettendo il loro viso di fronte e poi ridevano impaurendo le donne. Ma non accadeva nulla di tutto ciò. Restavi lì, sdraiato su un fianco con le gambe al petto e gli occhi che sembravano non poter esaurire il flusso di lacrime che scendeva, i denti stretti in quella morsa che ti impediva persino di singhiozzare, la voce cristallizzata in petto che mai più sembrava voler uscire. Non potevi gridare, non potevi muoverti. Non potevi fare nulla se non sperare in qualche bizzarro meccanismo del cervello che decidesse che non potevi reggere a tanto dolore e ti mandasse in coma. Ti tornavano alla mente tutte le idee più giocosamente idiote che avevate insieme, la più insignificante e meccanica delle carezze che v’eravate scambiati, la forma precisa che mai avresti pensato di conoscere del contorno dei suoi occhi. E ogni immagine era come se ti gettassero dell’acido su quella carne ridotta a brandelli, ormai non avevi più neanche la forza di reagire o di pensare se non alla speranza che arrivasse qualcuno dotato di un minimo di cuore a reciderti la carotide.

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