Si può ergere a proprio ideale di ricerca nelle relazioni altrui la bellezza?
L’estetica imperante è quella del
vuoto, la concezione della vita che sceglie le scatole secondo la loro
decorazione, senza badare minimamente se i cioccolatini al loro interno
sono tarlati dai vermi.
La
cazzo di simmetria eletta a ideale, la parte aurea del raggio e tutte
le manfrine che ci hanno inculcato per convincerci che esista una e una
sola forma di bellezza, assolutamente misurabile e matematicamente
riconoscibile. A che pro?
Capisco si potesse ragionare in tali termini
qualche secolo fa, quando anche l’arte si confondeva con l’artigianato,
quando la bellezza era riconosciuta tale solo in schemi non alterabili,
le quinte parallele considerate bestemmie, così come le alterazioni
metriche.
Ma sono passati appunto secoli.
E quello che lascia sgomenti è che un
mondo superbamente autodefinitosi elitario come quello dell’arte ha
ampiamente superato il concetto della bellezza come estremo ideale a cui
tendere, mentre il mondo comune continua a vedere il lei l’agorà nella
quale le aspirazioni si incontrano.
Cos’è bello? Siamo veramente
persuasi di poterlo definire matematicamente, di poterlo ingabbiare
dentro schemi dai quali non è consentito sfuggire se non a prezzo di
eresia?
Se
la tesi potrebbe trovare, a denti stretti, un qualche riscontro
nell’arte, cosa dire delle concezioni sugli esseri umani? Si può ergere a
proprio ideale di ricerca nelle relazioni altrui la bellezza?
Vedo con
sgomento individui che lo fanno. Vedo con sgomento individui il cui
unico criterio di scelta, giudizio e paragone è questa agognata
bellezza. E da lì l’ossessione imperante, su cui marciano centinaia e
centinaia di aziende il cui unico scopo è il lucro in quanto tale, sulla
ricerca di tale ipotetica perfezione, le cure termali e i pantaloncini
anticellulite, quel miscuglio chimico improbabile di cui m’arriva spesso
proposta d’acquisto via mail dal nome extralargis penis, l’industria cosmetica e quella chirurgica. Tutto in nome di questa fantomatica bellezza che a detta dei più dovrebbe portarti senza remore e odor di dubbio la felicità più splendida, alla quale non puoi osare aspirare se non sei conforme ai canoni, se le tue maledettissime cosce non rispettano le proporzioni auree, se quello che resta della tua chioma sono pochi, sparuti capelli alla base del cranio. Perché una persona si giudica da quello, da quanto la natura è stata magnanima o meno. E se non lo è stata non c’è altra colpa più grande della quale chiedere redenzione, il cui fio è l’essere considerati imperfetti e non degni di nota.
Che tale estetica del vuoto venga poi a volte acclamata dai belli è un parametro ancora più potente della mancanza assoluta di logica. Perché loro dovrebbero sapere che non serve a nulla esserlo. I belli raramente sono felici, se possiedono altro. E forse lo sono ancora di meno se la bellezza è l’unico elemento che li contraddistingue. Elemento destinato tragicamente a declinare, che può supportarci 20, 30 anni ma che poi troverà inesorabilmente il declino in quel mostro spaventoso e vorace chiamato tempo.
Perché la bellezza non è una qualità della quale puoi vantarti senza il consenso sociale, è, alla fine dei conti, qualcosa su cui tocca agli altri il giudizio. Qualcosa sulla quale non hai minimamente voce in capitolo rispetto a te stesso, ma solo rispetto a chi è altro da te.
I filosofi ci dicono da millenni di omaggiare altre qualità dell’essere umano, ma le loro parole sembrano essere foglie disperse dalla tormenta. E la concezione si inerpica attorcigliandosi su se stessa creando mostri che la esaltano negandola tragicamente.
Cos’è l’anoressia se non il volersi sganciare da quel corpo ingombrante per gridare al mondo che oltre la carne esiste altro che ci caratterizza?
Per favore quando mi parlate di qualcuno che non conosco non parlatemi della sua bellezza. È l’ultima cosa che m’interessa sapere.


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