lunedì 7 novembre 2011

L'ordine


Le carte da sistemare avevano in sè il triste presagio della necessità di un ordine, di qualcosa che potesse trovare un suo ben definito spazio nel caos universalmente brillante

Le carte da sistemare avevano in sè il triste presagio della necessità di un ordine, di qualcosa che potesse trovare un suo ben definito spazio nel caos universalmente brillante che da sempre caratterizzava quella che in linguaggio universale gli altri avrebbero chiamato la sua vita, ma che a lei sembrava non essere altro che un continuo cambio di scena della stessa commedia, recitata giorno dopo giorno, della quale non si riusciva a intravedere neanche distrattamente una conclusione logica.
L'ordine. Chi lo aveva inventato doveva esser stato qualcuno con pochissima fantasia e con gravi problemi. Qual era il suo senso? Come si poteva trovare una sistemazione logica a quel fiume di sassi e pepite d'oro che ogni giorno lambiva le sue cosce portando la frescura nelle afose notti estive, quando i grilli cantavano fino allo stordimento la loro malinconica nenia della bella stagione che presto sarebbe volata via? No, non esisteva l'ordine. Perchè questo strano concetto, frutto di una razionalità che le apparteneva quanto un gatto possa mai appartenere al suo padrone, fosse così ammirato e quasi idolatrato le sfuggiva. Riteneva, non senza un certo orgoglio narcisistico, che la sola idea di mettere in ordine qualcosa fosse un modo di celare per bene ciò che non si desiderava fosse palese agli occhi altrui. L'aveva sempre inteso così. Non era un modo per ritrovare facilmente le cose. Del resto, quelle che amavamo di più erano sempre in qualche posto dal quale erano facilmente rintracciabili. E delle altre... beh, a chi importava? L'ordine apparteneva per lei a quella serie epilettica di azioni che si compiono per essere ben giudicati dagli altri. L'aveva sempre concepito come un'ipocrisia, come una mancanza assoluta di sicurezza che portava a mettere in mostra quanto di più bello si aveva in casa, relegando negli sgabuzzini chiusi a chiave ciò che avrebbe classificato la nostra vita come ordinaria agli occhi altrui. Tutti tenevano in salotto i libri dalle copertine rilegate in pelle e oro e celati in qualche oscura cesta i quaderni di scuola dalle copertine incise di cuori dedicati a improbabili iniziali la cui memoria si era persa. Tutto ciò era patetico. Forse persino immorale. C'era dell'etica nel mostrare le lenzuola ricamate accanto agli stracci.
Non aveva mai ritenuto che l'essere umano, a parte rare, mitologiche eccezioni, fosse qualcosa di assolutamente puro e sublime. No, erano esseri timidi e caparbi, concentrati perennemente nell'unico, assillante pensiero di prevaricare sugli altri, di dimostrare di essere migliori di ciò che erano. La cosa buffa era che ognuno era assolutamente consapevole della propria, meschina umanità che li portava a visitare la stanza da bagno più volte in un giorno, a piangere per inezie assolutamente inutili, a essere tremendamente vulnerabili di fronte a situazioni che i più avrebbero liquidato come spot pubblicitari durante la finale dei mondiali. Ma ciò non importava loro. Ciò che a loro importava era che gli altri li vedessero come eroi capaci di respingere ogni attacco nemico, come blocchi di marmo sui quali la pioggia scivolava via senza apportare il minimo graffio. La cosa buffa era che erano tutti uguali, ma ognuno era convinto che l'altro fosse diverso da sè. Vivevano come vasetti di murano circondati da mura di granito chiedendosi continuamente perchè il loro cristallo tremasse a ogni minimo movimento e quello degli altri no.
Come potevano essere così ciechi? Come si poteva essere così esperti nel sapere quale punto colpire per rompere il vaso senza avere la consapevolezza che questo avrebbe mostrato che era solo l'esperienza propria a indicare lo spazio preciso?
Lei aveva distrutto le sue mura tanti, tanti anni addietro. E ciò spaventava. Perchè era illogico, al confine con quella che chiamavano pazzia. Come fosse possibile restare in bella mostra coi frammenti di pietra distrutta attorno a quel vaso che vibrava continuamente era per loro un mistero. Come si potesse non restaurarlo ogni giorno per renderlo più brillante un altro.
Questo era ciò che in lei faceva paura al mondo. Il fatto che fosse ufficialmente consapevole delle fragilità racchiuse da quei blocchi pesanti di granito che gli altri si portavano dietro. Non solo ne era consapevole, ma aveva anche il cattivo gusto di parlarne. No, no, era una pazza. Era follia acuta esporre alle intemperie il proprio cristallo. Si sarebbe frantumato in mille scheggie al primo eco di tempesta. Ma ciò alla fine era quello che loro importava meno. Tutti avrebbero visto quella devastazione. Era questo che li portava a star male. A scappare da chi aveva abbandonato le armature e danzava nel vento incurante della pioggia e degli acari. A chi aveva gettato alla rinfusa tutto sopra ogni superficie disponibile senza alcun interesse a disporlo in modo logico.
Guardò le carte e le appoggiò distrattamente da qualche parte. L'ordine. Rise al sentire il suono di questa parola e le sembrò che il canto dei passeri aumentasse di intensità, quasi a dirle che aveva ragione

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