Spazi chiusi. Recensione non autorizzata
Per una claustofobica come me parlare di un album che si intitola “Spazi chiusi” significa dar voce alle più intime ed invalidanti angosce.
Ed è proprio il motivo centrale dell’ultimo lavoro dei Campo Avvelenato, quel sottile perturbante legato a situazioni esistenziali che si tenta di travalicare ma con poco successo.
Tutto nell’album è intriso da questa sottile speranza di poter evadere, forse, unita alla consapevolezza di non poterlo fare. Si inizia dalla copertina, un’irreale uscita da un tunnel che si presume essere lungo ma che al suo sbocco presenta una luce abbagliante. Abbagliante forse al punto che conviene decidere di restare dentro, attendendo il momento psicologicamente migliore per decidere di affrontare ciò che sta al di là delle proprie certezze e del proprio mondo familiare.
Nella pagina dei ringraziamenti una scala interna, dei muri sgretolati dal tempo tiranno. Un’immagine claustrofobica, non si vede né intuisce la fine dei gradini, il verde dello sfondo richiama alla memoria tante e tante location di film angoscianti. The Hole per tutti. La speranza di uscire alla luce è adesso più flebile rispetto la copertina, esiste ancora ma comporta più difficoltà. Speranza tragicamente messa a morte sul retro di copertina: una porta chiusa, massiccia. Impossibile da sfondare. Anche a causa del fatto che si apre verso l’interno. L’erba che cresce lungo la giunzione delle ante suggerisce che quella porta non sia stata aperta da decenni. Sei chiuso all’interno e la luce abbagliante che si vedeva allo sbocco della galleria è quasi un ricordo onirico al quale aggrapparsi prima di morire nel più claustrofobico degli incubi.
L’album ha pressappoco lo stesso percorso di intenti. Si apre con Hop Frog, colui che riesce a rompere le catene della sua negazione di umanità e a fuggire dal castello nel quale era rinchiuso. Non senza aver prima dato sfogo alla sua ira e aver incendiato nel più purificatore dei roghi tutto ciò che nella prigionia l’aveva privato della sua dignità di essere umano.
L’identità, la negazione di essa e il non riconoscersi allo specchio. Motivo ricorrente che trova la sua apoteosi nella seconda traccia “Voglio la mia identità”, grido disperato di chi stenta ad arrendersi alle superfetazioni che gli altri hanno posto sopra il proprio essere. Identità negata che si traduce nell’incomunicabilità di “Fiamma”, uno dei pezzi storici del gruppo, dal tema musicale semplice che si contrappone a un testo falsamente semplice anch’esso ma di una complessità derivante dai diversi significati attribuibili ad ogni frase. È un grido rabbioso contro l’intera società dei farisei e benpensanti, coloro che vedono la pagliuzza altrui e non si curano delle proprie, immense travi.
Un piccolo, flebile bagliore di speranza emerge dalla penultima traccia “Sottovoce”. Speranza, negata ma pur sempre possibile, di riuscire a sentire ed essere similarmente a un altro essere umano, del quale si condividono le stesse invalidanti fobie ma col quale tuttavia il muro di separazione viene condiviso e vissuto come invalicabile. E non basta neanche la più stretta intimità a travalicarlo: ognuno rimane solo anche nella condivisione.
Per ultima, la traccia che dà il titolo all’album. La negazione dell’impegno e della presa di posizione, il rassegnarsi al fatto che il mondo non si curi del nostro pensiero o di ciò che siamo, pur non negando la nostra esistenza. E allora l’unica arma di sopravvivenza rimane l’assoluta indifferenza, il continuare a respirare e vivere malgrado tutto e tutti. La teoria del “ci sono e se non vi piace… fatti vostri!”
mercoledì 22 luglio 2009
Spazi chiusi
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