lunedì 3 ottobre 2011

L'inizio (anedonia cap. 4)


Al principio fu come tutti gli inizi. La conobbi in un bar una sera qualunque nella quale non vi era nulla di nuovo da aspettarsi, una di quelle sere già scritte e vissute mille volte delle quali sai già il monotono finale. Al principio fu come tutti gli inizi. La conobbi in un bar una sera qualunque nella quale non vi era nulla di nuovo da aspettarsi, una di quelle sere già scritte e vissute mille volte delle quali sai già il monotono finale.
E invece quella sera l'universo aveva deciso di mettere in gioco tutto se stesso per creare tra le mille possibili la combinazione perfetta che avrebbe fatto sì che ci incontrassimo, che lei entrasse in quel bar nel quale non era mai stata prima, che i nostri occhi si incrociassero e vedessero gli uni negli altri quello che avevano sempre cercato nei posti sbagliati.
Fu come destarsi improvvisamente da un lungo sonno nel quale, sonnambuli, avevamo scambiato la felicità che stavamo cercando con qualcos'altro, sbagliando mille e mille volte ogniqualvolta ci eravamo illusi di averla finalmente in tasca. Tutto ciò che avevamo attraversato sino a quel momento, ogni singola risata, ogni lacrima versata, ci parve improvvisamente come le emozioni che si provano di fronte a un film quando ci si immedesima coi protagonisti. Ci toccavano per un momento ma non erano parte di noi, scivolavano sulla nostra pelle non riuscendo a penetrare in fondo. Era improvvisamente come se fossimo stati fino a quel momento due bambini che avevano giocato alla vita senza aver ben chiaro cosa questa in realtà fosse.
Iniziò un tormento interminabile di telefonate e sms, iniziò uno stato febbrile e delirante nel quale l'ansia la faceva da padrone, nel quale, al minimo ritardo nella risposta, ci interrogavamo su noi stessi, chiedendoci continuamente se l'altro ci avrebbe trovati sbagliati. Cercavamo infinite conferme pur sapendo che quella sera il destino aveva stretto attorno a noi un cappio inestricabile. Ogni parola sussurrata o ancor peggio scritta scatenava in noi il terrore di venire fraintesi, la paura di aver detto la cosa sbagliata, quella che avrebbe allontanato definitivamente da noi ciò che non sembrava essere una delle mille tappe della nostra vita, ma la destinazione finale.
Le parole fanno paura perché vi è la concezione simil democratica che esse debbano appartenere a tutti. E se è vero che ognuno può esprimere ciò che sente è ancor più vero che non vi sono parole univoche. Ciò che scrivi lascia sempre spazio all'interpretazione altrui, e le metafore servono a celare abilmente ciò che hai dentro e non hai il coraggio di esprimere pubblicamente. O più semplicemente sono messaggi cifrati che invii senza sapere se il destinatario ha la chiave adatta per interpretarli. A volte senza sapere se il destinatario sa di esserlo.
Pubblicavamo canzoni e link chiedendoci se l'altro avrebbe intuito che erano per lui. Sorridevamo della presunzione del mondo quando coloro che non ne erano destinatari agivano come se lo fossero.
Furono giorni distratti nei quali chattavamo per ore, raccontandoci ciò che non avevamo mai detto neanche a noi stessi, furono giorni nei quali anche le regole più ferree che avevamo imposto alla nostra vita vennero spazzate via in un vortice di novità e rinnovamento.
Se le mie ex avessero saputo che parlavo per ore al telefono mi avrebbero lapidato sulla pubblica piazza. Io ero quello che fino a quel momento aveva detestato i telefoni fino a lasciarli spenti per giorni, ero quello al quale dovevano chiedere il permesso prima di chiamare, permesso che veniva tra l'altro quasi sempre negato.
Ora dipendevo da quell'oggetto, stavo sempre attento fosse carico e con la ricezione completa.
Il mio mondo si era completamente capovolto e fu allora che iniziò anche a ruotare su se stesso.

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